David Bowie is...
A True Lenged!
Il film ispirato alla mostra record (311.000 i visitatori) dedicata a David Bowie e conclusasi lo scorso Agosto 2014 al V&A museum di Londra, è portata sui grandi schermi da Hamish Hamilton, il regista Premio BAFTA degli Academy Awards e della Cerimonia di Apertura dei Giochi Olimpici del 2012.
Il Victoria & Albert Museum, è un’istituzione nazionale, che racchiude la storia del mondo, della società multietnica che lo ha abitato e colorato nel tempo.
Entrare all’interno delle sue sale allestite in onore del grandissimo artista David Bowie, ha tutto il sapore di una visita nella magnificenza delle Piramidi di Giza, adornate di abiti teatrali, testi ed immagini narranti le gesta dell’artista.
E’ difficile menzionare David Bowie, senza ritrovarsi davanti agli occhi i tanti personaggi da lui interpretati nel corso della carriera, ma il V&A riesce a stupirci, consegnandoci un’immagine a noi sconosciuta, che andrà ad arricchire le sfaccettature del diamante.
Nel 1947, nel vuoto più totale dei sobborghi inglesi rasi al suolo dalla guerra, nasce Davie Johns, bambino di bell’aspetto, che fin dai primi anni dimostra una spiccata personalità ed esibizionismo, al punto di esser ripreso perfino nelle pagelle scolastiche.
Davie ama disegnare, porta in tasca un taccuino pronto ad esibire, con idee, spunti e disegni, in cui tratteggia con marcata autostima, l’orientamento inevitabile della sua vita, ad 11 anni inizia a frequentare la scuola di Bromley, dimostrando un forte interesse per il rhythm and blues, ed il rock 'n' roll. Ha da poco ricevuto in dono un saxofono bianco, con il quale si cimenta ispirandosi a Little Richard.
In modo delicato, la mostra proposta dal V&A, sposta il riflettore dalla scena musicale, all’uomo, divenuto: David Bowie.
Interessante infatti notare, quanto nessuno dei curatori appartenga al mondo della musica; ancor più affascinante constatare che la maggior parte dei pezzi esposti nelle sale, provengano dall’archivio privato dell’artista, che come un moderno Faraone Egizio, non solo ha creato nei primi anni della sua carriera personaggi di fantasia ispirati al mondo ultraterreno delle stelle, degli alieni, ma ha anche conservato con estrema dovizia di particolari, tutti gli oggetti che tracciano il percorso della sua vita, unitamente a quella di ciascun personaggio inventato.
Quando David, da Bromley si trasferisce a Soho, nel cuore pulsante della Londra più irriverente, trova a mio avviso, la chiave che aprirà le porte al suo successo planetario, attraverso l’incontro con Lindsay Kemp. Bowie, ha un’innata propensione al moderno self-marketing ed un’intuizione sottile dei desideri sopiti dell’animo umano, al pari del geniale Andy Warhol, che dall’altra parte dell’oceano riuscirà a vendere agli Americani, il loro stesso sogno americano. Non stupisce quindi che i destini di entrambi si intreccino, si influenzino, concludendosi con l’immedesimazione cinematografica di Bowie, che meravigliosamente veste i panni del padre della Pop Art.
Lindsay Kemp, insegna a David l’arte del travestimento, dell’interpretazione o se vogliamo, l’astuzia dell’omerico Ulisse e del cavallo di Troia: dentro ad un costume, puoi essere chiunque tu voglia essere.
Come direbbe Oscar Wilde: “datemi una maschera e vi dirò tutta la verità”.
Il genio trova la via per poter esprimere senza costrizioni mentali di sorta, ogni sua inclinazione, come in un caleidoscopico turbinio di colori e performance, che lasciano tutto il mondo sbalordito.
David, come dimostrano i disegni, gli scritti ed anche numerosi video, allestiti nelle sale del V&A, è un accentratore, che pianifica ogni più piccolo dettaglio del lavoro, che segue con la stessa scrupolosità di un direttore marketing, non privo tuttavia nella vita del libertinaggio più sfrenato.
Bowie ama circondarsi di collaboratori specializzati, come lo stilista: Kansai Yamamoto; creatore dell’iconico abito in vinile nero per il tour Aladdin, che non crede ai suoi occhi, quando raggiunge il cantante a New York e lo vede scendere dal soffitto, esibendosi in performance durante le quali indossa la sua collezione d’indumenti femminili.
Ma Bowie, oltre ad esprimere un marcato interesse verso il buddismo e l’oriente, fin da ragazzo si espone in modo coraggioso per rompere le barriere degli stereotipi sessuali, della censura, provocando in continuazione l’opinione pubblica ed incuriosendola circa le sue personali inclinazioni.
Colpo da maestro o forse mera fortuna (ai posteri l’ardua sentenza), quando nel 1972, confessa pubblicamente nell’articolo "Oh! You Pretty Thing”: “Sono gay, lo sono sempre stato, anche quando ero Davie Jones”. L’attenzione mediatica risponde alla provocazione ed in breve il suo album “Ziggy Stardust” schizza in cima alle classifiche.
Il “Duca Bianco”, vestito da Alexander McQueen, è un artista, una superstar, tra le più audaci, geniali ed eroiche, che ha tentato sempre e continuativamente di imporsi rompendo le regole, spezzando gli schemi, senza per questo proporci opere banali, ma con un occhio attento e preciso, minimalista a sprazzi, che ha saputo cogliere in circa 70 anni, tutti i tratti distintivi della società, dei suoi linguaggi: la musica, il design, la fotografia, l’arte, il cinema…
“David Bowie is” è una mostra rivoluzionaria, non tanto per la struttura proposta dai curatori, quanto per l’intento di comunicare un messaggio importante: “We could be heroes, just for one day”.
Un artista, che ha dapprima sognato la propria fortuna, per poi crearla con un incessante lavoro quotidiano, questo è David Bowie, secondo me: un eroe del nostro tempo!
Ora in Mostra a Chicago
Elena Arzani